Per un’impresa sono tre modi di stare sui social.
Il primo è considerare i social come un gioco da ragazzini, “tanto sono capaci tutti” e in effetti questa modalità richiede solo un po’ di attenzione a non far danni d’immagine, ergo servono tempo e cervello, per dire che non serve un’agenzia di supporto se non per l’aspetto formativo, quando necessario. Va detto che questa modalità è largamente utilizzata dalle piccole imprese perché economica, ma ha il solo effetto di tenere “la posizione”, non ha cioè alcun effetto di aumento della reputazione del brand.
Il secondo modo: si può stare sui Social in modo ragionato, lavorando su una strategia comunicativa e una conseguente linea editoriale che mira a innalzare la brand reputation. E qui servono dei professionisti che spendono denaro per formarsi continuamente e abbiano strumenti utili a governare diverse piattaforme. E che sappiano razionalizzare le attività in funzione del budget disponibile.
Infine il terzo modo, quello più “bellico” o se volete scientifico, dove si mettono in campo azioni sofisticate di social media marketing e di webmarketing. E qui serve un arsenale di conoscenza che esonda fuori dal social perché interviene anche su altri mezzi. Qui il tiro si alza, e molto. Siamo su un terreno evoluto ma anche scivoloso.
La differenza fra le tre modalità, oltre che nella professionalità e nella competenza necessari, sta nell’investimento.
Sono tre livelli di budget diversi. Più si sale e più servono tempo, competenza, esperienza, presenza e flessibilità.
Spesso le piccole imprese (ma anche molte delle medie) chiedono il secondo livello ma pensano al primo.
Eppure i Social sarebbero davvero una grandissima risorsa per loro.
Occorre lavorare sulla consapevolezza di questi imprenditori, titolari di piccole imprese, affinché abbiamo chiare le enormi potenzialità per lo small e local business, e anche per il loro personal brand, derivanti da un buon investimento sui Social Network.
Questo è un aspetto delicato che va affrontato tenendo presente il digital divide, nel senso di un gap culturale ancor più che generazionale, che emerge spesso dalle richieste dell’imprenditore. Diventa così determinante lavorare sul versante della formazione nelle piccole imprese e, perché no, anche del Coaching, cercando di farne comprendere lo spirito e l’utilità.